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Paolo Baldacci. UNA “PASSEGGIATA” NELLE ULTIME MOSTRE

Appunti sul “caso de Chirico”

Purtroppo, sembra non esserci un limite al proliferare delle mostracce di Giorgio de Chirico e al loro basso livello. Complici amministrazioni comunali e assessorati alla cultura, assetati di apparire ma incapaci di valutare e di scegliere, buoni solo a buttar via i soldi dei cittadini per manifestazioni degradanti che nulla hanno di educativo, anche se paradossalmente finiscono per essere molto istruttive sui meccanismi che regolano il nostro oggi più che mai disgraziato paese. Complici anche drappelli di giovani avventurieri disposti a qualunque scorribanda pur di conquistarsi sui campi della provincia italiana il titolo di storici dell’arte e la qualifica di curatori. Complice, infine, talvolta per distratta compiacenza e talaltra per coinvolgimento diretto, la Fondazione Giorgio e Isa de Chirico, ai cui responsabili neanche sfiora l’idea di cosa significhino “qualità” e “storicità” e del perché non sia lecito confondere perennemente le carte delle date e dell’autenticità dei quadri.


Le responsabilità della “Fondazione de Chirico”

Abbiamo già commentato in questo sito, nei mesi scorsi, la grande mostra romana al Palaexpo, promossa dalla Fondazione e curata da Achille Bonito Oliva, e anche alcune piccole mostre con titoli magniloquenti e ridicoli che periodicamente inquinano la Penisola, criticando in ambedue i casi i criteri guida di queste rassegne e la confusione che creano con l’impedire una corretta lettura storica dell’opera di de Chirico, mescolando date vere e di fantasia, quadri autentici, quadri falsi e quadri semi falsi di bottega.
Ora vogliamo tornare sull’argomento, illustrando alcuni esempi concreti e soprattutto denunciando il caso, assolutamente clamoroso, di un dipinto non di de Chirico che viene da decenni ripetutamente proposto come opera fondamentale del Maestro, addirittura del 1909. Tutto ciò con il beneplacito della Fondazione de Chirico, che mentre si dimostra di estrema solerzia nell’intralciare, con tutti i mezzi giuridici ed extragiuridici di cui dispone, ogni seria ricerca storica su de Chirico e sulla sua opera; mentre tenta, negando i diritti di riproduzione, di impedire la presenza in mostre o la pubblicazione in cataloghi scientifici di opere assolutamente autentiche e passate al vaglio dei maggiori studiosi, alle quali essa non concede il proprio avallo non perché abbia argomenti seri per contestarle (che infatti non rende mai noti), ma solo per ragioni di ostilità personale verso i pochi cultori di de Chirico e della metafisica che ragionano con la propria testa e che non sono ai suoi ordini; mentre fa tutto questo – dicevo – la Fondazione lascia che opere notoriamente eseguite da falsari vengano inserite in una grande rassegna a Parigi, per poi entrare immediatamente nel mercato 1; lascia che brutti dipinti di epoca tarda vengano proposti ovunque come capolavori metafisici  (con conseguente fortissima rivalutazione per i collezionisti che ci credono) 2 e 3 ;  che opere di bottega, uscite dallo studio ma non di mano dell’artista, insieme a falsi pubblicati nel Catalogo Generale e alla perenne ricerca di un chiodo che ponga fine alle loro peregrinazioni, trovino posto in mostre più o meno prestigiose anziché essere espunti dal novero delle opere autentiche 4 e 5.

La mancanza di chiarezza porta gravi danni all’immagine e al mercato dell’artista  

E’ necessario reagire con determinazione a questa mancanza di rigore filologico, che si accompagna alla compiacenza verso gallerie e mercanti “amici” e alla paura di affrontare una volta per tutte la revisione del più disastrato, inattendibile e volgare “Catalogo Generale” dedicato a un grande artista moderno, cioè quello di Giorgio de Chirico curato tra gli anni ’70 e ‘80 da Claudio Bruni Sakraischick. Per un semplice motivo, e cioè che questa condotta non giova a nessuno. Non favorisce gli studi e la conoscenza, anzi li intralcia. Non serve ai collezionisti, ma neanche ai mercanti e alle case d’asta e, vorrei dire, soprattutto non giova a questi ultimi, perché l’incertezza e la manifesta incapacità della Fondazione di affrontare con mezzi culturali adeguati il “caso de Chirico” creano paura e diffidenza e hanno fatto slittare l’artista in una zona marginale del mercato e dell’interesse internazionale deprimendone fortemente i prezzi.
L’unica zona franca che si salva in questo marasma è quella degli studi sul periodo metafisico, che resiste nell’interesse degli studiosi, soprattutto stranieri, per la sua eccezionalità e ricchezza di suggestioni culturali, ma senza per questo determinare una corrispondente tenuta dei prezzi. Uno dei maggiori mercanti d’ arte europei mi faceva recentemente notare che alla metà degli anni ‘70, un de Chirico metafisico importante costava come un Van Gogh, mentre oggi il rapporto è di 1 a 10 o addirittura a 15. Per non parlare del de Chirico degli anni ’20, che non ha mai sfondato nell’interesse internazionale e che oggi è “fuori moda” persino in Italia. Questo è il risultato della pessima politica perseguita in questi anni, intesa a promuovere la produzione peggiore dell’artista e a creare solo confusione e incertezza su tutto il resto.

Una “crosta” portata  alle stelle

E ora veniamo al caso limite cui si accennava nel titolo. Cioè quello di un dipinto di bassissima qualità, non firmato, proveniente dal mercato antiquario, acquistato per poche lire negli anni ‘80 da una contessa / mercante amica di Claudio Bruni, e ipso facto promosso a opera di de Chirico del periodo bockliniano (1909), subito pubblicato nel Catalogo Generale con un titolo completamente inventato: “La passeggiata”,  quindi immesso sul mercato attraverso un’asta Finarte del 1988. Fin qui non ci sarebbe da stupirsi troppo: i quadri apocrifi nel Catalogo Generale sono tanti e, come abbiamo già visto, alcuni di quelli attribuiti da Bruni a epoche storiche fanno veramente rabbrividire. Ma queste opere, in genere, sono rimaste ai margini, quasi mai inserite in mostre o fatte oggetto di commenti e contributi scientifici seri. Nella complessa vicenda dechirichiana un quadro controverso, o attribuito con eccessiva generosità, può sempre sfuggire, ma difficilmente, dopo l’eventuale errore, viene riesumato e riproposto con insistenza come opera importante e fondamentale.  Cosa che è invece successa a “La passeggiata”, che nel corso della sua breve esistenza come opera di de Chirico ha trovato, per pura coincidenza e in modo del tutto disinteressato – questo bisogna riconoscerlo –, un paladino prestigioso, potente, esperto, ricco di fantasia e di capacità dialettica, ma soprattutto divenuto, man mano che si addentrava negli anni, sempre più vendicativo e ciecamente ostinato nel “farla pagare” a chi aveva osato mettersi di traverso sul suo cammino.
Non che Maurizio Calvesi, professore emerito di Storia dell’Arte Moderna all’Università La Sapienza di Roma e Accademico dei Lincei, sia mai stato un “buonista”, anzi …. ma ciò che è successo negli ultimi anni ha qualcosa di surreale. E purtroppo ci ha fatto dimenticare il grande Calvesi che avevamo ammirato negli anni Settanta.
I lettori devono sapere che quasi trent’anni fa, nel 1982, Calvesi pubblicò un libro, intitolato La metafisica schiarita, che, in un quadro generale di spunti e di osservazioni interessanti, aveva il merito di impostare per la prima volta un approfondito tentativo di ricostruzione storica delle vicende della cosiddetta e mai realmente esistita Scuola Metafisica tra il 1917 e il 1919. Purtroppo il libro aveva anche il difetto di proporre come tesi principale una periodizzazione degli esordi artistici di de Chirico, dal 1906 in avanti, basata su un manoscritto autobiografico inedito nel quale, come spesso faceva quando gli tornava utile, Giorgio, nel 1919, in pieno ritorno all’ordine, raccontava delle gran frottole su una sua formazione classica e di duro tirocinio nei musei del capoluogo toscano. Dall’ipotesi di un precoce e prolungato soggiorno fiorentino veniva l’idea, strenuamente difesa da Calvesi anche in seguito e contro ogni evidenza, che il niccianesimo di de Chirico fosse “di seconda mano”, non formatosi sui testi originali, ma, almeno in un primo momento, assorbito, a Firenze, attraverso le opere di Giovanni Papini.
Tutta questa premessa serve per spiegare che, quando le scoperte di Gerd Roos dei primi anni ’90, anticipate in alcuni contributi scientifici di poca circolazione, dimostrarono che le incongruenze già evidenti di questa ricostruzione erano in realtà crepe gigantesche, l’intero edificio di Calvesi venne giù in un soffio come la casa dei tre porcellini. La cassa di risonanza mondiale di queste scoperte e del conseguente crollo calvesiano fu il mio libro sulla metafisica, uscito in varie lingue nel 1997, perché Roos mi diede generosamente la disponibilità del suo materiale prima di poterlo pubblicare lui stesso in modo completo – cosa che avvenne solo nel 1999.
Ma cosa c’entra, in tutto ciò, il quadro “La passeggiata”?  C’entra, perché quest’opera viene portata alla ribalta da Maurizio Calvesi nel quadro degli attacchi che, spalleggiato dalla Fondazione de Chirico, egli decise di sferrare contro di me dopo l’uscita del mio libro. Soprattutto contro di me – allora – perché Roos in quel momento veniva ancora sottovalutato, in quanto più giovane e meno conosciuto. Oggi abbiamo invece l’onore di essere sempre accomunati e portati come esempio di ciò che, per le baronie universitarie italiane, non si deve nemmeno osar pensare: smentire dei cattedratici.
Il primo attacco venne su “ARS”, la rivista De Agostini Rizzoli di cui Calvesi era direttore, nell’aprile del 1999 (De Chirico dall’Arno alla Senna, “ARS” anno III, n. 4 (16), aprile 1999, pp. 46-63). Mentre mi accusava, fin dal sottotitolo, di presentare “discutibili ricostruzioni, insieme ad opere giudicate non autografe dal maestro e non soltanto da lui”,  Calvesi sottolineava che nel mio catalogo non avevo incluso un dipinto poco noto “di flagrante autografia”, di cui commentava con suggestiva abilità e notevole fantasia il soggetto (tempio di Apollo) e la sua ubicazione (il santuario di Delfi alle pendici del Parnaso), cambiandogli di conseguenza il titolo dall’ “incongruo” (sic) La passeggiata al sicuramente più congruo ma ugualmente inventato Il tempio di Apollo a Delfi  (ibid., p. 50 e 52), e spostandone la datazione al 1910.
Avendo io replicato spiegando l’esclusione del dipinto dal mio catalogo con la manifesta mancanza di requisiti stilistici (“ARS” anno III, n. 8 (20), agosto 1999, p. 73), Calvesi ribadiva la sua attribuzione appellandosi anche all’autorità di Claudio Bruni, e quanto alla mia osservazione che nel suddetto dipinto mancavano del tutto i tratti lineari a colore scuro liquido con cui de Chirico usava allora sottolineare i contorni e rilevare le forme, da me considerati quasi una sigla di riconoscimento dei quadri di quell’epoca, controbatteva di essere “troppo navigato per non diffidare di questo tipo di osservazioni  tecniche assunte a metro esclusivo di giudizio”(sic), come se la pittura non fosse una vera e propria “grafia” di cui l’occhio del conoscitore sa riconoscere e memorizzare le caratteristiche!
Da allora, e nel corso della noiosa e inutile polemica che allievi e portaborse hanno indefessamente alimentato contro Gerd Roos e me per sostenere le tesi calvesiane, spostandosi, man mano che esse franavano di fronte all’evidenza dei documenti, “su sempre nuove e più arretrate posizioni” – come recitavano i bollettini di guerra del Duce –, questo dipinto, la cui autografia, nella controreplica di Calvesi, da ”flagrante” era diventata “lampante”, ha conosciuto una discreta fortuna, tanto insperata dal punto di vista critico quanto inutile da quello economico, perché sta da oltre un decennio nelle mani della stessa galleria senza mai trovare un chiodo su cui avere pace.
Tra gli estimatori di questa crosta si è distinto soprattutto Claudio Crescentini che da una posizione sostanzialmente positiva, se pur con un margine di incertezza per via delle tante contestazioni al dipinto allora in corso (Melanconico De Chirico, Lihos editrice, Roma, 2000), è senz’altro passato nel 2009 a un’accettazione completa (“forse una delle prime opere realizzate a Milano”) nel suo Giorgio de Chirico. L’enigma velato (Edizioni erreciemme, Roma), un volumetto che sembra scritto apposta per fiancheggiare un Calvesi in difficoltà e pubblicato da Fondazione Roma Museo, col contributo del Ministero dei Beni Culturali e della Provincia di Roma, e con l’imprimatur di Paolo Picozza, presidente della Fondazione de Chirico. Non c’è bisogno di dire che ambedue i volumetti del Crescentini sono stati gratificati di una introduzione di Calvesi e che il secondo ha fruito di una presentazione in pompa magna degna della Nomenklatura ex sovietica, con l’intervento dell’allora ministro Sandro Bondi e chi più ne ha più ne metta. Persino il povero Mario Ursino, vice soprintendente della GNAM, che avendo per anni frequentato la Fondazione è ben al corrente della non autografia dell’opera (era uno degli esempi che sempre si portavano negli anni 1993-1996 ogni volta che si affrontava il tema delle ripuliture necessarie al Catalogo Generale), l’ha annoverato nel 2008 nel ristretto numero delle opere premetafisiche (De Chirico e il museo, ed. Electa, p. 15), guadagnandosi così la promozione a “grande studioso di de Chirico”.
A questo punto bisognerà, forse, attendere la scomparsa degli interessati per veder tornare le cose a posto.
Mi si consenta di soffermarmi ancora un momento sullo stile e sulla materia di questo quadro e sulle abissali discordanze con lo stile e la materia dei de Chirico bockliniani. La pittura non ha nerbo (le pendici della montagna scendono molli come un lenzuolo e si distendono in modo del tutto innaturale) ed è la materia pittorica stessa che, attraverso un elementare e assai compitato addensamento in chiari e scuri, ha il ruolo di delineare le forme. Una materia pittorica, vorrei aggiungere, completamente opaca perché i pigmenti sono mescolati con bianco e con terre, come fanno i principianti, spaventati dalla necessità di coprire la trama della tela. Se si osservano invece i dettagli di tutti i quadri bockliniani di de Chirico si nota una tecnica esecutiva completamente diversa: il pittore, prima, delinea le masse con colori liquidi e trasparenti, che appunto per questo hanno conservato una grande luminosità e brillantezza, poi, per far risaltare le forme, sottolinea le parti scure con colori bruni trasparenti e profondi come bitume, terra di Cassel o bruno Van Dyck. Una tecnica che risale ai fiamminghi, ad Andrea del Sarto, a Rubens e ai suoi seguaci, e che anche Bocklin utilizzò nelle sue opere, quasi tutte con base a tempera e poi così rifinite. Dopo aver ottenuto in questo modo la massa dominante della composizione, de Chirico si muniva di un sottile pennello intinto in uno dei bruni liquidi che abbiamo nominato e passava alla parte “grafica” dell’opera, ai piccoli dettagli, alle sottolineature, a quei numerosi segni calligrafici che contraddistinguono questi quadri e ne costituiscono la caratteristica più inconfondibile  6 -7-8 .
Checché ne dica il “troppo navigato” Calvesi, che diffida delle “osservazioni tecniche assunte a metro esclusivo di giudizio”, io penso che, nella totale mancanza di altri elementi che possano suffragare l’attribuzione a de Chirico di quest’opera (documenti storici, provenienza, testimonianze d’epoca: non c’è nulla) sia meglio attenersi all’occhio, che ha sempre permesso a chi li capisce di giudicare i quadri. Come si fa a parlare di “metro esclusivo di giudizio” quando tutto ciò che per Calvesi giustifica l’attribuzione di quest’opera è frutto di illazioni o è totalmente inventato: soggetto, titolo, data, ecc.?
E che d’altra parte, Calvesi non sia fortissimo come “occhio” lo dimostrano tanti e ben noti precedenti che riguardano non solo de Chirico, ma anche Savinio e Boccioni,  e che non vogliamo qui ricordare.

E’ quindi con grande sorpresa che abbiamo visto il cosiddetto Tempio di Apollo passeggiare nelle ultime mostre che sfruttano il nome dell’inventore della pittura metafisica: Giorgio de Chirico: Un maestoso silenzio, a cura di Roberto Alberton e Silvia Pegoraro, partita dal Castello di Miramare a Trieste per approdare poi a Reggio Emilia, e finalmente Bocklin, De Chirico, Nunziante, a cura di Giovanni Faccenda,  a Fiesole. A proposito di quest’ultima rassegna, dove la crosta ora descritta viene presentata come sommo documento  della prima produzione del povero de Chirico, ci verrebbe da domandare: ma chi è questo Nunziante (venti tele sue in mostra contro le cinque ciascuno – modestissime e qualcuna incerta – di Bocklin e de Chirico) ?  E come si permette il curatore Faccenda di intrufolarlo tra il grande maestro di Basilea e un sia pur degradato e squinternato de Chirico degli ultimi anni? Sarebbe come dire “Dante, Leopardi, Gelli” (Licio, quello della P2, che come non tutti sanno è anche un raffinato poeta).