E’ noto che ottenere prestiti importanti dai grandi musei e dalle grandi collezioni private internazionali per sedi espositive italiane è molto difficile se non quasi impossibile. Ciò, tuttavia, non giustifica l’imbarazzante mediocrità della mostra di Salvador Dalí allestita al Palazzo Reale di Milano (Salvador Dalí. Il sogno si avvicina, a cura di Vincenzo Trione, Catalogo 24Ore cultura). Ci sono tanti modi per superare l’impasse dei grandi prestiti e per riuscire comunque a mettere in piedi una manifestazione dignitosa o nella quale si possa imparare qualcosa. Il migliore esempio, tanto per non andare lontani, è la mostra dello scorso anno, sempre a Palazzo Reale, su Edward Hopper, che non aveva che due o tre dei quadri più famosi e importanti di questo autore, ma che per l’acume delle scelte e degli accostamenti, per aver saputo mostrare parti meno note della sua opera, e per aver approfondito il rapporto tra gli studi, i disegni e i dipinti finali, si è rivelata una mostra di successo e anche istruttiva.
Questa di Dalí, invece, a parte la mediocrità insulsa di quasi tutte le opere esposte, tranne quattro o cinque, è una mostra senza capo né coda, dalla quale i visitatori usciranno senza aver nulla capito e sicuramente imbarbariti nel gusto e nella capacità percettiva. Cosa per altro possibilissima quando si è senza guida con un autore viscido e sfuggente come il furbissimo catalano. Ma ciò che più indispone, dal nostro punto di vista, è che il curatore abbia voluto intitolare il suo saggio introduttivo Dalí metafisico, e in esso si sia dilungato in paralleli e analogie con de Chirico, oltre che sforzato di dimostrare la presenza di una ispirazione e di una tensione architettonica nei quadri di Avida Dollars (così, anagrammandone il nome, l’aveva soprannominato nel 1939 André Breton, alludendo ironicamente al suo stretto rapporto col mercato americano).
Il curatore sa, e lo dice, che de Chirico non aveva alcuna considerazione per Dalí, così come non l’aveva suo fratello Savinio, che lo considerava il peggiore dei pittori surrealisti. Per quanto i giudizi di de Chirico sui pittori suoi contemporanei siano spesso bizzarri e dettati dal desiderio di stupire o da risentimenti, in questo caso specifico non ci sentiamo di dargli torto. Definire Dalí “metafisico”, sia pure attraverso contorte carambole dialettiche, farà rivoltare il pictor optimus nella tomba. Infatti, se c’è una cosa che distingue l’arte metafisica dal surrealismo alla Dalí, è che quella di de Chirico metafisico è “un’arte severa e cerebrale, ascetica e lirica” – come lui stesso la definì nel 1918 –, in un raro e quasi inarrivabile equilibrio di emozione e ragione, mentre quella di Dalí, e soprattutto quella che possiamo vedere in questa mostra, è una pittura piena di trucchi, priva di costruzione plastica e di tensione interna, per la quale parlare di “architettura” – se non fosse per le banalissime citazioni da enigmista distribuite qua e là – è per lo meno fuori luogo.
Le leccatissime superfici sfumate dal chiaro allo scuro e completamente vuote che coprono circa il 70% di ogni tela di Dalí, le fughe verso orizzonti alti ricamati di rocce e di incrostazioni lunari, che sfruttano la nota equazione secondo la quale la prospettiva non è che un’immagine simbolica della memoria, ci appaiono oggi piccoli e quasi volgari giochi di prestigio, capaci di avere un’efficace applicazione nel cinematografo, ma che nulla hanno a che vedere col senso plastico e la costruzione del quadro. E infatti intensissima fu la relazione tra la pittura di Dalí e il grande cinema dove le sue invenzioni trovavano il giusto mezzo espressivo. Persino il concetto di sogno e di un eventuale automatismo onirico non si concreta nella sua pittura che attraverso sfumature, trucchi, fughe (di origine dechirichiana) e dissolvenze, chiaroscuri teatrali e immagini pseudo terrifiche da baraccone da fiera. Nulla a che vedere con il profondo pensiero che sta dietro il concetto di sogno come rivelatore della struttura fantasmica interna, architettura o scheletro della materia, che troviamo in de Chirico e che fu efficacemente sviluppato da Max Ernst e da Magritte. E poi, ci sia concesso di dire che ormai troppe mostre recano titoli ridicoli e senza senso: Il sogno si avvicina ? cosa vuol dire ? A noi fa venire in mente: Faccetta nera, bell’abissina, / aspetta e spera ché già l’ora s’avvicina …
Dopo un’adolescenza da pittore post cubista, Dalí ebbe nella parte centrale degli Anni Venti uno straordinario exploit come pittore realista della Nuova Oggettività in voga in quegli anni, con straordinari ritratti che possono stare alla pari con quelli di Otto Dix o con alcuni Picasso, e con nature morte inquietanti e torbide composizioni intrise di sensuale magia. Poi vennero Eluard, Gala e il periodo surrealista, durante il quale, soprattutto tra il 1928 e il 1933, egli ebbe modo di portare sulla tela, con una tecnica minuziosa di tradizione quasi fiamminga, le sue deliranti ossessioni paranoico scatologiche in modo così impressionante e morboso da imporsi immediatamente all’attenzione internazionale. Si pensi solo a quadri come il Ritratto di Paul Eluard o Il grande masturbatore, disseminati di insetti, formiche e lordure inimmaginabili. La sua fama nacque da queste opere, che sono tutt’oggi un unicum degno di attenzione nella storia artistica del XX secolo, ma di cui, in questa mostra, non ci è dato di vedere neanche un lontano esempio.