Un vecchio proverbio francese dice: Il n’y a que la vérité qui blesse.
Infatti Paolo Picozza, presidente della Fondazione de Chirico, si è molto arrabbiato per il nostro intervento sui dipinti di Renato Peretti che figurano nel catalogo generale (Notiziario 2013/10) e per l’articolo di Cristina Ruiz su “The Art Newspaper ” dello scorso febbraio. A tal punto che è venuta a soffrirne persino la sintassi e la sua non sempre solidissima padronanza della lingua italiana.
Da qualche giorno si può leggere sul sito della Fondazione uno scritto di undici pagine, firmato “Fondazione Giorgio e Isa de Chirico” ma dovuto alla sua penna – come sono dovuti alla mia tutti gli scritti non firmati che compaiono sul nostro sito -, nel quale viene raccontata la storia del dipinto Muse Inquietanti venduto alla Italian Sale di Sotheby’s a Londra il 17 ottobre 2013 e non ritirato dal compratore: “motivando il diniego – come testualmente scrive Picozza – sulla falsità dell’opera”, in quanto “l’acquirente era stato notiziato della “falsità”, subito dopo l’asta, da un esperto di de Chirico”, che egli identifica nel nostro vicepresidente Gerd Roos.
Seguono pagine di insulti e di bugie nei confronti di Roos e miei, presentati come due omertosi “compari di merende”, e una a suo dire esauriente dimostrazione dell’autenticità del dipinto, che a me pare invece del tutto lacunosa e contraddittoria, se non addirittura sospetta (ma questo si discuterà in altra sede).
Premesso che né io né Roos abbiamo scritto che il dipinto è falso ma solo che potrebbe esserlo, dato che Peretti lo ha indicato come probabile opera sua, e che quindi andrebbe sottoposto a verifica, lascio a Gerd il compito di rispondere alle affermazioni e agli apprezzamenti che lo riguardano.
Per parte mia, non perdo tempo a ribattere punto per punto tutte le frottole che racconta su di me. D’altronde, che Picozza sia abituato a raccontare bugie è cosa nota a tutti, e chi avrà voglia di leggere i documenti dei miei processi che vado man mano pubblicando sul nostro sito potrà deliziarsi di tutte le falsità che questo signore ha raccontato agli inquirenti e ai giudici.
Mi limito a notare che il parossismo nervoso dimostrato dal presidente della Fondazione indica che egli sente franare il terreno sotto i piedi a causa di poche semplici cose che stanno accadendo. Come indicano i commenti ironici su questa vicenda usciti su alcuni giornali francesi, la credibilità del Catalogo Generale e la fiducia nell’operato della Fondazione sono ai minimi storici.
Tra queste poche e semplici cose si annoverano sia i libretti dell’Archivio dedicati a ristabilire la verità su molti clamorosi episodi di opere autentiche giudicate false (studi documentati ai quali Picozza non ha mai risposto), sia le indagini sempre più approfondite sulle vicende di de Chirico nel corso degli Anni Trenta, che dimostrano come la teoria della precoce falsificazione della sua opera, sempre sostenuta dalla Fondazione, non abbia alcun fondamento storico. Tra l’altro, dal momento che ogni anno la Fondazione finisce per dover riconoscere l’autenticità di qualcuna delle opere degli anni ’10 o ’20 che de Chirico aveva dichiarato false, fra poco non resterà nemmeno la possibilità di fornire una prova materiale di questa infondata teoria. Il nostro prossimo volume su La vera storia dei falsi de Chirico tirerà le somme di queste ricerche e passerà al vaglio tutte le dichiarazioni dell’autore e degli improvvisati esperti che su queste hanno costruito i loro castelli di carte, ponendo la parola fine all’annosa querelle. A questo lavoro si affiancherà l’uscita del catalogo ragionato di tutta l’opera metafisica fino ai primi anni Quaranta e di uno studio di Gerd Roos con la completa catalogazione di tutti i falsi eseguiti da Oscar Dominguez tra il 1943 e i primi anni ’50.
La seconda tappa del nostro lavoro, di cui l’attuale polemica sui falsi Peretti non è che un anticipo, riguarderà alcuni aspetti della falsificazione del dopoguerra, una storia che si intreccia con quella del “de Chirico falsario di se stesso” e dei suoi aiutanti e imitatori. Episodio culminante di questa ricerca sui falsi degli anni Sessanta-Ottanta, sicuramente destinato a clamorose polemiche, sarà la pubblicazione di tutti i documenti che riguardano il più grave caso di falsificazione successivo alla morte di de Chirico: il cosiddetto Archivio Broglio o Archivio Valori Plastici. A conclusione di tutto ciò, anche i non vedenti e i non udenti si renderanno conto che il Catalogo di Giorgio de Chirico va interamente rifatto su nuove basi e che tutti i certificati che girano sono poco più che carta straccia.
Queste sono le risposte che noi, come Archivio dell’Arte Metafisica, diamo agli attacchi di Paolo Picozza e della Fondazione de Chirico.
NOTA SUL MIO “CONFLITTO DI INTERESSI”
Paolo Picozza ha dichiarato tempo fa al “Giornale dell’Arte” che io fui costretto a uscire dalla Fondazione de Chirico nel 1997 perché operavo in conflitto di interessi. Pubblico qui di seguito la mia lettera di dimissioni del 5 agosto 1997 (Documento 1), la quale dimostra che i motivi della mia uscita erano ben altri e che Picozza mi aveva chiesto di restare come consulente esterno per le autentiche. Non si capisce quindi per quale motivo il presidente della Fondazione si sia tenuto al fianco per oltre quattro anni un delinquente come quello che lui descrive, e per di più gli abbia chiesto di continuare a dargli la sua collaborazione per le autentiche anche quando costui, stanco di tutti gli scandali di cui veniva giornalmente “notiziato” dalle “esternazioni” di Antonio Vastano (spesso fatte in presenza di tutti i dipendenti e borsisti della Fondazione), decise di rassegnare le dimissioni. La seconda parte di questa lettera – estrapolata dal contesto – viene spesso citata da Picozza per dimostrare che io – per mia stessa ammissione – non ci capisco nulla del de Chirico postbellico e non sono capace di distinguere un Peretti da una pera cotta. Certamente nel 1992, quando entrai in Fondazione, non ero in grado di affrontare con competenza quel settore, piuttosto complesso e per il quale erano necessarie conoscenze pratiche che si potevano fare solo a contatto diretto con le opere. Ho incominciato a imparare al fianco di Vastano, che tuttavia – checché ne dica Picozza – aveva spesso anche lui parecchie incertezze perché il confine tra un brutto originale e un buon falso era molto labile. Uscendo dalla Fondazione ero ben cosciente di non potere da solo affrontare con sicurezza quel periodo, non soltanto per la mancanza di un appoggio ma anche per la mancanza di un archivio ben fornito sull’argomento come quello della Fondazione. Tuttavia solo gli stupidi non progrediscono mai, e per quanto l’argomento non mi abbia mai appassionato (infatti non mi piacciono, di quel periodo, né i quadri di de Chirico autentici né quelli falsi!), nei diciassette anni che sono passati da allora ho fatto parecchia strada e le schifezze che ci sono in giro, anche con autentiche recenti dalla Fondazione, le distinguo anch’io …
Nell’articolo on line che ho sopra citato, producendo mie vecchie interviste e altri documenti tra cui le mie deposizioni in Tribunale, Picozza dice che io avrei mentito dichiarando a Cristina Ruiz di non aver mai venduto quadri da me autenticati mentre ero in Fondazione. É invece la sacrosanta verità.
Che io avessi una galleria e che tra gli artisti da me trattati de Chirico occupasse una posizione di rilievo lo sapevano tutti. E non potevo certo smettere di lavorare, tanto più che dalla Fondazione non ho mai percepito una lira. Ciò nonostante fui pregato di entrare a far parte del consiglio e del comitato, così come mi si implorò di convincere Pia Vivarelli ad entrarci (cosa che posso dimostrare con diverse lettere di allora). Se non mi volevano perché vendevo anche quadri di de Chirico dovevano dirlo, no?
Che io mi sia posto subito – io e non loro – il problema del doppio ruolo che ricoprivo lo dimostra la lettera che pubblico più avanti, inviata a Picozza il 4 marzo 1993, prima ancora che il comitato per le autentiche entrasse in funzione (Documento 2). Picozza non mi rispose. Infatti, come tutte le persone che hanno qualcosa da nascondere e che sono abituate a non lasciare tracce del loro operato, il presidente non scriveva mai, al massimo parlava, ma poco. Mi disse, a voce, di non preoccuparmi e semplicemente di informare prima i miei colleghi del comitato se le opere che acquistavo erano inedite o non ancora riconosciute. Cosa che ho sempre fatto: tutte le opere che ho venduto mentre ero in Fondazione (cinque o sei, e tutte opere storiche dal 1912 alla metà degli anni ’30) erano prima passate al vaglio della commissione, composta all’inizio da tre persone e poi da due. Nessuna di queste aveva una expertise mia. Vuole forse dire Picozza, con le sue insinuazioni, che Pia Vivarelli e Antonio Vastano erano così rincretiniti da far passare tutto ciò che imponevo io?
Una sola volta è successo che il quadro da me acquistato, la cui documentazione avevo messo agli atti ottenendo l’approvazione di tutti, non giungesse al comitato, e si tratta del Cavalli e Dioscuro, autentico piccolo olio su cartone dei primi anni ’30, venduto in asta a Prato nel maggio 1995 e che l’acquirente, nonostante le promesse e gli impegni, non si curò mai più di mandare per ottenere il certificato, dando la possibilità a Picozza & C. di farlo sequestrare come falso sette anni dopo. E questo è anche l’unico quadro tra tutti quelli da me venduti, corredato da una garanzia di autenticità mia, non una expertise ma un documento di responsabilità civile e penale imposto dalla legge e rilasciato, a richiesta della casa d’aste, molto tempo dopo la vendita. La storia intera di questa vicenda, costellata di tutte le bugie raccontate in proposito da Paolo Picozza sia agli inquirenti sia ai giudici, mentendo persino sulle regole di funzionamento che ci eravamo date all’interno dei comitati e che sono dimostrate da documenti scritti, i lettori potranno seguirla sul nostro sito tra i documenti del mio processo.