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Paolo Baldacci. IL RISCHIO DELLE AUTENTICHE. A PROPOSITO DI UN RECENTE EPISODIO CHE HA PORTATO ALLA SCOPERTA DI UN FALSO “DISEGNO” DI GIORGIO DE CHIRICO.

Nell’ultima delle due pagine annuali di informazioni che l’Archivio pubblica sul GdA (“Il Giornale dell’arte”, n. 336, novembre 2013, p. 19) affermavo che un attendibile servizio di certificazione può essere fornito solo nell’ambito del complesso lavoro che presiede – o almeno dovrebbe presiedere – alla redazione del Catalogo Ragionato di un artista.

Due fatti recenti mi inducono a tornare sull’argomento con maggior forza. Il primo è la scoperta che un bel “disegno” acquerellato, dichiarato come originale di Giorgio de Chirico dal comitato per le autentiche della Fondazione nel 1993, quando anch’io vi facevo parte, è in realtà una stampa abilmente camuffata con un collage. Il secondo è la notizia data a Cristina Ruiz (Chirico catalogue under scutiny in “The Art NewsPaper”, section2, n. 251, febbraio 2014, p. 3 e p.11) dal presidente della Fondazione, Paolo Picozza, che sarebbero pronti e starebbero per uscire ben quattro nuovi volumi del discusso Catalogo Generale di Giorgio de Chirico, un’opera che, solo per la sua concezione, va annoverata tra quelle scientificamente più aberranti che l’editoria d’arte mondiale abbia mai prodotto.

Partiamo dall’episodio del disegno. Ho fatto parte della Fondazione e del suo comitato per le autentiche nella prima fase che potremmo chiamare post-Bruni, dal 1993 al 1997 1.
Il comitato era composto, oltre che da me, da Pia Vivarelli e da Antonio Vastano, e posso dire senza timore che si trattava del miglior comitato possibile, che univa il massimo delle competenze allora disponibili. Ma, come mi sono reso conto in seguito, erano le regole che ci eravamo dati e il nostro metodo di lavoro che rendevano impossibile non compiere qualche errore. Purtroppo, molti altri servizi di certificazione di opere di autori del Novecento funzionavano nello stesso modo.

Molto in sintesi, la segreteria della Fondazione raccoglieva le fotografie delle opere per le quali veniva richiesto un esame e svolgeva un primo riscontro in archivio. Nell’archivio erano raccolte e catalogate in buste e fascicoli divisi per argomento le immagini e l’eventuale documentazione di tutte le opere che nel corso del tempo erano state raccolte per il Catalogo Generale o presentate per ottenere un giudizio. In ogni busta si trovava ogni documento relativo a ciascuna opera: giudizi del Maestro sul retro di fotografie o in margine a pubblicazioni, giudizi e annotazioni di Claudio Bruni, documenti presentati dai proprietari e relativa corrispondenza. Le opere archiviate erano molte migliaia, comprese quelle giudicate false. Dopo questo riscontro, che metteva in evidenza se nell’archivio vi era già traccia dell’opera che sarebbe stata presentata e se su di essa era già stato dato in passato un giudizio, si faceva una prima selezione del materiale. Di molte opere infatti era talmente evidente la falsità che non era necessario esaminarle dal vero. Scartate queste, i presentatori delle richieste venivano invitati a portare le opere da esaminare in Fondazione, dove generalmente venivano trattenute un paio di giorni o poco più, e la commissione si riuniva. Quasi sempre i membri della commissione avevano già ricevuto a casa le fotografie delle opere da giudicare e in una o due sedute consecutive, spesso lunghe e stancanti, venivano esaminate anche trenta o più opere, tra quadri e disegni.

Il limite di questo metodo era costituito dal fatto che esso perpetuava quello su cui si era basato il pessimo Catalogo Generale e faceva uso del suo archivio, nel quale le opere non erano schedate e catalogate in ordine storico e cronologico, oltre che tematico, né corredate delle necessarie e accurate ricerche (da quelle bibliografiche alle mostre private e pubbliche, fino agli epistolari dove potevano essere menzionate, ecc.). Non c’era nulla di scientificamente organizzato a cui riferirsi e l’archivio stesso era stato formato in modo casuale, con ciò che arrivava e non in base a una ricerca partendo dalle principali pubblicazioni e cataloghi usciti durante la lunga vita dell’autore. In casa de Chirico mancava persino una decente biblioteca perché libri e cataloghi erano stati per lo più trafugati chissà dove (e qualcuno lo sa) o venduti. Spesso dovevamo far ricorso, se la memoria ci aiutava, alle nostre biblioteche e documentazioni private. Ne veniva come conseguenza che i nostri giudizi erano dati per lo più “a naso” o “a occhio” che dir si voglia, e solo in pochi casi e quando era possibile erano confortati da una ricerca più approfondita. Non vi era infatti in Fondazione nessuno strumento già approntato per esaminare un’opera inserendola nel contesto storico e temporale di un Catalogo Ragionato sia pure in fieri, così da poterne rilevare eventuali incongruenze, problemi ecc. Si deve solo al nostro buon occhio e alla nostra bravura se gli errori che abbiamo fatto sono probabilmente molto pochi. A parte uno importante di cui ci accorgemmo subito e al quale ponemmo riparo già allora, ogni tanto, a un riesame delle vecchie carte che facciamo insieme Gerd Roos e io per il nostro lavoro attuale – impostato su basi completamente diverse – emerge qualcosa che non ci convince. E poiché abbiamo oggi una documentazioni ricchissima, meticolosamente raccolta da Roos negli ultimi venticinque anni, siamo subito in grado di fare i confronti e gli approfondimenti necessari, sia nel caso di opere ritenute autentiche che invece sono false, sia di opere ritenute false che invece sono autentiche.

La scorsa estate, passando alcuni pomeriggi nel rompicapo di dare una sistemazione cronologica alle opere metafisiche di de Chirico eseguite negli anni Trenta, e per lo più retrodatate, mettendo a confronto i dati storici accertati con quelli materiali e stilistici, ci trovammo di fronte a un disegno, autenticato il 30 ottobre 1993 dal comitato di cui facevo parte. Nella scheda del giudizio, di cui avevo copia e che riproduco [Fig. 1] (schede che erano sempre scritte a mano da me e poi firmate da tutta la commissione),

Figura 1

il disegno [Fig. 2], datato 1917 e rappresentante un manichino pittore in una stanza di fronte a un cavalletto, era attribuito al periodo milanese 1938-40 e indicato come simile ai due famosi disegni eseguiti in stile metafisico per Raffaele Carrieri, anch’essi datati uno 1917 e l’altro 1915. Ricordavo bene tutta la vicenda.

Figura 2

Nessuno di noi aveva avuto il minimo dubbio sull’autografia del disegno perché appariva evidente, e questo ci aveva fatto trascurare sia la strana prospettiva del quadro montato sul cavalletto e delle figure di manichini un po’ astratti in esso raffigurati, sia l’incongruenza del muro di fondo della stanza, decorato anch’esso da pitture simili. Ci eravamo soffermati solo sullo stile del disegno e sul timbro di un negozio milanese di vetri e cornici che si trovava sul retro e che da un’indagine presso la Camera di Commercio risultava essere stato in attività dal 1902 al 1951. Che il nostro esame fosse stato eccessivamente rapido, forse a causa delle troppe opere da vedere nella giornata, era dimostrato anche dal fatto che nessuno aveva notato che una scritta a matita sul retro in alto verso destra riportava il nome della moglie di uno dei maggiori collezionisti americani di opere metafisiche di de Chirico: “Mrs. Stanley Resor”. Tante stranezze che allora erano passate inosservate, tanto più che in Fondazione non esisteva un libro su cui si potesse fare un confronto con l’analogo “manichino pittore” di Carrieri [Fig. 3] (F. Russoli, I disegni dei maestri. Il Novecento, Milano, Fabbri 1985, Tav. XXII) e francamente non ricordo, a oltre vent’anni di distanza, se il disegno di Carrieri fosse schedato in archivio e se li avessimo messi a confronto.

Figura 3

Nel contenitore schedario su cui stavamo lavorando Roos e io, invece, i due disegni erano catalogati uno dopo l’altro, e Roos mi fece subito notare le incongruenze, alle quali io in un primo momento non volli dar peso proprio perché dentro di me sentivo che aveva ragione e perché un medesimo ragionamento lo avevamo fatto poco prima su un altro quadro, una piazza d’Italia. E’ sempre antipatico dover riconoscere un errore. Meno di un’ora dopo, tuttavia, guardando e riguardando, riconobbi che le sue osservazioni erano giuste e che molto probabilmente il disegno non era autentico e avremmo dovuto toglierlo dal nostro catalogo. Nei mesi seguenti, io da Milano e lui da Berlino, cercammo di capire, scambiandoci numerose email, come e quando potesse essere nato un falso così raffinato: il negozio indicato nel timbro aveva chiuso nel 1951, la prima riproduzione del disegno Carrieri da cui un falsario avrebbe potuto eseguire una copia era invece del 1971 e si trovava in una monografia dei Fratelli Fabbri. Per far quadrare i dati io ero arrivato addirittura a ipotizzare una copia fatta fare da Carrieri a Felicita Frai sulla base del suo disegno. Carrieri e la Frai vivevano insieme ancora nei primi anni ’50, lei aveva una buonissima mano e aveva lavorato con de Chirico, e Carrieri aveva sempre bisogno di soldi…. niente di più facile per spiegare in modo errato tutti i problemi che ci assillavano. Finché un giorno, come evocato dalle nostre discussioni, il “disegno” riemerse ad opera di una coscienziosa art consultant milanese che conosco da anni e che mi telefonò per riportarmelo da esaminare. La signora di cui parlo si chiama Antonella ed è ben al corrente dei problemi che presenta de Chirico: esperienze passate le hanno infatti insegnato che non ci si può mai fidare.

Antonella arriva dunque nel mio studio con il disegno, nella sua vecchia cornice con un pass rosso velluto, il vetro e i timbri. Al momento mi dico di nuovo – quasi trionfante – che non può trattarsi di un falso, tanto è ben fatto, ma decido di accantonare il problema per una più tranquilla riflessione, perché per dire che una cosa è falsa bisogna sì mettere in evidenza le incongruenze rispetto a un probabile originale, ma in un caso così raffinato bisogna anche spiegarsi in modo plausibile come e quando il falso può essere nato. Ad ogni modo, dato che lei rappresenta i proprietari, che lo hanno avuto nei primi anni Settanta e che desiderano venderlo, le faccio presenti per correttezza i dubbi di Gerd Roos e miei e le dico che non sarà incluso nel nostro prossimo catalogo ragionato della metafisica ma che non abbiamo ancora deciso se non includerlo perché lo riteniamo sicuramente falso o perché lo riteniamo di una data posteriore (il nostro catalogo si chiude nel 1943). Molte cose sono infatti ancora da chiarire. Le consiglio infine di rivolgersi a una casa d’aste e di non stare tanto a pensare ai nostri dubbi e problemi, dato che lei non porta alcuna responsabilità perché si tratta d’un’opera autenticata dalla Fondazione. Detto e fatto. La valutazione di Sotheby’s è superiore a quella di Christie’s e tutti sembrano contenti, finché, un giorno di gennaio Antonella mi telefona e mi dice: “hanno scoperto che è una stampa, vengo domani da te e ti racconto”!!! Io, prima, mi dico che è impossibile, poi ho un lampo e mi spiego “quasi tutto”. Inizio anni Settanta (data in cui il “disegno” entra nella attuale collezione): esce la monografia Fabbri con la riproduzione del disegno di Carrieri, qualcuno fa fare dalla monografia un cliché e senza neanche preoccuparsi di ingrandirlo o di rimpicciolirlo (infatti la misura è uguale a quella della foto nella monografia Fabbri) lo stampa su un consunto cartoncino di un vecchio negozio di cornici recuperato chissà dove, e come ultimo tocco di raffinatezza scrive in altro a matita “Mrs. Stanley Resor”, segno che questo qualcuno era piuttosto ben informato. Al momento però penso che il truffatore abbia fatto fare il cliché del solo manichino, che era il pezzo più difficile da imitare, per poi completarlo con le aggiunte a matita e acquerello (il cavalletto e lo sfondo): solo così si spiegano le somiglianze incredibili e non riproducibili neanche dall’autore stesso tra il disegno Carrieri e questo.

Solo quando arriva Antonella con l’opera vengo a sapere tutta la verità e la constato – si può ben dire – con mano. Il fotografo di Sotheby’s, dopo aver scorniciato il cartoncino e averlo messo sotto le luci per fotografarlo, aveva notato un leggero riflesso traslucido attorno alla sagoma del quadro sul cavalletto e, pensando a problemi di conservazione, aveva chiamato l’esperto dei disegni e delle carte, il quale si era accorto che il traslucido era dovuto a tracce di colla: tutta la sagoma del quadro era stata disegnata su una velina acquerellata, ritagliata millimetricamente e incollata in modo da coprire la parte stampata sottostante. Lo stesso era stato fatto sul fondo della stanza. Esaminando il “disegno” con una potente lente contafili si vedeva il retino, sia pure con un’inchiostrazione assorbita dalla cattiva qualità del cartone. Un’ultima prova con la gomma da cancellare aveva confermato che si trattava di una riproduzione del disegno Carrieri stampata su un vecchio cartone da corniciaio e modificata con la sapiente aggiunta di un sottilissimo collage che si poteva avvertire solo passandovi molto attentamente il dito sopra.

Prima morale: attenzione, attenzione, attenzione! Un vecchio adagio dei mercanti francesi dice: “jamais acheter papier ou gravure sous verre” (non comprare mai carta né stampa sotto vetro). Esaminando un presunto disegno bisogna sempre ricorrere alla lente contafili. Onestamente non ricordo a vent’anni di distanza se allora esaminammo il disegno incorniciato e sotto vetro o no. Ma una cosa è sicura: de Chirico non avrebbe mai disegnato su un cartoncino da vetraio. Il supporto su cui si trovava il cosiddetto disegno era di un’incredibile povertà, un cartone acido di quelli che diventano rapidamente marroni, e sul retro si trovava ancora il nastro della carta adesiva a colla del corniciaio oltre che il suo timbro. Quale professionista del centro di Milano (il negozio era in Corso Venezia) avrebbe timbrato così pesantemente il retro di un disegno originale come si timbra un cartone di chiusura? E’ vero che sul retro di molti disegni di Morandi si trova il timbro col numero della Galleria del Milione, ma è impresso leggermente e sul margine in basso o in alto.

Seconda morale. Le cosiddette autentiche sono a rischio. Non sempre per incompetenza dei giudicanti ma per il metodo sbagliato che usano: troppo “occhio” e troppo “naso”, troppa fretta e, soprattutto, troppo poca riflessione sul contesto di ogni opera rispetto a quelle simili o coeve. Per questo ho scritto che non si possono rilasciare certificati se non nell’ambito di un minuzioso lavoro di comparazione dei dati e delle opere disposte nel loro quadro cronologico e storico, come stiamo facendo all’Archivio dell’Arte Metafisica. Il catalogo ragionato di Magritte edito dalla Menil Foundation di Houston è un esempio eloquente di come si fa un buon lavoro di catalogazione. Il Catalogo Generale di Giorgio de Chirico è un esempio altrettanto eloquente di come un lavoro mal fatto e impostato sull’ignoranza e sulla convenienza mercantile possa rovinare un grande artista.

Ci domandiamo come saranno i quattro prossimi volumi annunciati da Picozza: se essi conterranno molti dei giudizi dati nella fase Bruni e tutti quelli dati nella fase post Bruni (non parliamo poi di quelli dati con la collaborazione di Jole De Sanna …) ci sarà da mettersi le mani nei capelli.

Paolo Baldacci

NOTE

1 La Fondazione Giorgio e Isa de Chirico era nata nel 1986 da un compromesso finalizzato a sbloccare lo stallo creatosi per la contrapposizione tra Claudio Bruni – promotore di una Fondazione de Chirico a New York – e la vedova Isabella Pakszwer, titolare di un’analoga Fondazione a Roma. Il Catalogo Generale, che Bruni intendeva continuare per proprio conto nonostante i divieti imposti dall’artista e poi dalla vedova, e la gestione del ghiotto cespite delle autentiche erano la posta in gioco. Isa ne fu il primo presidente e Bruni il vice presidente operativo. In quegli anni uscirono i volumi settimo e ottavo del Catalogo, caratterizzati dalla presenza di numerose opere false attribuite agli anni 1925-1930 – il cosiddetto periodo Rosenberg, ultima moda del mercato. Ma la certezza di Bruni di poter fare il bello e il brutto tempo senza mai pagare il conto si spinse fino a fargli fare il passo che lo portò alla rovina finale. Bruni infatti mise sul mercato circa una novantina di grandi opere su carta realizzate da un falsario piacentino, la maggior parte delle quali recavano la sua autentica personale rilasciata a New York, ma venivano man mano riautenticate a Roma dal comitato della Fondazione composto da lui stesso, da Maurizio Calvesi e da Giovanna Dalla Chiesa (rapporto alla Procura della Repubblica di Roma, Nr. 26696/35 di prot. “P”, Roma, 23 giugno 1990, del Reparto Carabinieri Tutela Patrimonio Artistico. Si veda anche “Il Giornale dell’Arte”, anno VIII, n. 76, marzo 1990, p. 1 e 3). Il giro fu smascherato da un’indagine dei Carabinieri e ne nacque uno scandalo di cui parlarono tutti i giornali, ma che oggi sembra completamente dimenticato. Calvesi e la Dalla Chiesa se la cavarono protestando la loro buona fede e totale fiducia nella competenza di Bruni (fatto che dimostra la loro totale incompetenza perché della falsità di quelle grandi carte non mi ero accorto solo io, come riconosce il rapporto dei CC, ma persino il corniciaio Angelo Cagliani di Via Monte di Pietà a Milano, al quale ne erano state portate una ventina da incorniciare). In seguito a questo scandalo e all’azione giudiziaria che ne seguì Claudio Bruni si dimise da vicepresidente e si rifugiò a New York dove un anno dopo morì (agosto 1991). Come vice presidente gli succedette Paolo Picozza, avvocato della vedova e da tempo grande manovratore dietro le quinte di tutto il teatro dell’eredità de Chirico. Alla morte di Isa (novembre 1990) Paolo Picozza divenne automaticamente presidente della Fondazione, carica che occupa incontrastato da oltre ventitré anni.